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Il
linguaggio non è solo rappresentazione del mondo, o un mezzo che
consente al soggetto di entrare in rapporto con un'esteriorità.
Esso è l'organo che ci permette di fonderci con il fuori, di aprire
un flusso privato, asfittico e circolare all'ambiente.
Nel
momento in cui il linguaggio si fa motore del mondo, piuttosto che
limitarsi a fornirgli uno specchio, cadono contrapposizioni
tradizionali quali io/altro, pubblico/privato: ecco quindi che
risultano possibili nuove forme di conoscenza, che ripensano alla
globalità dell'esistente alla luce di un continuo salto di registro
tra immedesimazione e distanza.
Calarsi
nel mondo, e farlo parlare attraverso la propria pratica: l'artista,
l'ambiente (che siano luoghi, writers sconosciuti, persone amate) ed
il linguaggio stesso concorrono ad una continua rilettura su più
piani di sé e degli altri, che giunge a riformulare non solo un
rapporto, ma il concetto stesso di identità.
[...]
L'opera
consiste non tanto in una determinata lettura dei soggetti, in un
loro ritratto, quanto nel suggerire un atteggiamento, e nel proporlo
quale oggetto di un dibattito. L'artista si fa nominatore, attraverso
una continua interrogazione dell'esistente, che non fa appello ad una
conoscenza o ad una tecnica specifica. Il mondo diviene un
interlocutore, e l’artista legge ogni stimolo come una possibile
risposta, trasformando tutto in segnale, in metafora di un
qualcos'altro.
[...]
Il
concentrarsi sul processo di traduzione, sugli inevitabili
slittamenti di significato che esso comporta, problematizza l’idea
di ogni confronto positivo. Una vera condivisione, è sempre
condivisione prima di tutto della consapevolezza dell’impossibilità
di un rapporto totalmente trasparente ed appagante. (Datele unamore felice o infelice ma che sia amore - PR 2006)
J’ai
des mains pour te cueillir, thym minuscule de mes rêves, romarin de
mon extrême pâleur.
(Ho
mani per coglierti, timo minuscolo dei miei sogni, rosmarino del mio
estremo pallore.)
André
Breton, Le revolver aux cheveux blancs, 1932.
[...]
Una
certa idea di stabilità viene comunicata direttamente dal gesto
scultoreo, nella cui compulsione (chi non ha mai giocato, senza
accorgersene, con un pezzetto di carta?) è possibile rintracciare
un senso di appartenenza e di protezione, un calarsi negli elementi
minimi del vivere lo spazio e gli oggetti vicini, che
inconsapevolmente costituiscono la costellazione delle nostre
relazioni primarie.
La
mano dell’artista, che gioca e assegna titoli a volte struggenti, a
volte comici, riesce a farsi così piccola, così precisa da
costruire un intero universo conchiuso e coerente di significati
intimi nello spazio di una cucina.
Cos’è
un souvenir? Un ricordo fatto oggetto e immagine, un centro
nevralgico in cui si condensa il passato e ciò che eravamo. Come
l’ancora posata su un bicipite, il tatuaggio più banale e kitsch,
e allo stesso tempo il più antico, che con il tempo viene usata per
rappresentare da parte dei marinai la prima traversata oceanica, o
l’essere scampati ad una pericoloso tempesta. Tra il vivere sulla
nostra pelle gli avvenimenti e il ricordarli da lontano, si pone un
atto – un oggetto – in cui i due aspetti si fondono. Il fare per
ricordare è al tempo stesso ridicolo e nobile, inutile e necessario
– banale e poetico, come un oggettino di ceramica con la scritta
Casa mia può sostituire il mondo – il mondo non può sostituire
casa mia.
I
live by the ocean / and during the night / I dive into it / down to
the bottom / underneath all currents / and drop my anchor / and this
is where I’m staying / this is my home.
Björk,
The anchor song, 1993
[…]
Il
segreto ha uno statuto ambiguo e scivoloso: da una parte è una cosa
nascosta, che non va divulgata, dall’altra se non lo si rivela in
parte - ma, beninteso, sussurrando all’orecchio: “è un
segreto!” - non esisterebbe in quanto tale. In questo risiede forse
il suo fascino, ed il suo potere urticante.
[…]
Le
immagini non possono parlare. L’unica cosa che possono fare è
presentarsi, essere presenti, vicine; starci vicino. E lo fanno nello
spazio, prima che nel tempo: nello spazio della memoria, del nostro
computer, delle nostre case. Attraverso una foto non possiamo
evidentemente rivivere la giornata in cui è stata scattata, o
riportare qui la persona che lì sembra sorriderci. Possiamo però
creare un altro spazio in cui stare vicini, senza parlare. E si sa,
non è facile non sentirsi in dovere di parlare; ma quando si ha la
fortuna di incontrare qualcuno con cui ce lo si può permettere, è
un’occasione rara che va colta al volo. (Dudy Guard - PR
2009)
Il
cielo qui è sottile come carta.
Il
primo aggettivo che userei per descrivere la notte è spessa.
Seguendo il flusso di idee che ne deriva, il tramonto sarebbe uno
stratificarsi, una scultura a mettere, l’alba uno sfogliarsi, una
scultura a levare. Nel momento in cui la notte è più fitta, la
vita stessa pesa di più; è per questo che di solito scegliamo di
dormire.
[...]
Un
giornalista giapponese si ritrovò a Parigi ad una delle prime
proiezioni dei fratelli Lumière, e fin da subito in Giappone
iniziarono a circolare degli articoli su questa nuova scoperta..ma il
giornalista si spiegò male, o venne capito male, fatto sta che gli
articoli ripresi dalla sua testimonianza davano del cinema una
visione totalmente distorta, secondo cui le file di sedie erano poste
lateralmente, perpendicolari allo schermo invece che parallele, e lo
spettacolo ammirato dal pubblico era costituito non dall'immagine
proiettata sulla tela, bensì dal cono di luce che usciva dal
proiettore. Bello, no? Benvenuti. (9 ore 54 minuti, con Anna
Forlati - PR 2010)
Si
muovevano...tenevano la posizione assegnata loro, ma stavano
compiendo dei piccoli movimenti regolari, avanti e indietro, come se
stessero respirando, e quelli vicino alle pareti e alle colonne
sbattevano producendo un suono secco, che di respiro in respiro
diveniva sempre più articolato...non proprio una voce, questo no, ma
come un alito, un sussurro lieve. Forse se quei due arroganti
avessero smesso di litigare si sarebbe potuto capire qualcosa! Poco a
poco tutte le statue si fecero zitte, le risatine e le battute di
stupore si sopirono, il pupo smise di piagnucolare e tutti iniziarono
a fissare quei cubetti come se da un momento all'altro avessero
dovuto rivelar loro un messaggio di vita o di morte...l'ammasso di
statue prese una direzione come stabilita, tutti divennero un unico
sguardo puntato verso quell'angolo, ancora un momento e la voce
avrebbe raggiunto un volume e un'articolazione appena
comprensibile...(Dudy Guard – PR 2012)
La
mano successivamente percorre un sentiero che lambisce e illumina la
traccia precedente. La ricerca della forma viene abbandonata a favore
di una celebrazione di quello che già c'è. Cercare di pensare con
la mano, anzi neppure pensare ma contemplare il segno di un
passaggio, divenire traccia tra altre traccie, senza intenzioni né
significati.(ArgenteoLumacheo,
PR 2012)
Eppoi
momenti sospesi, quando soffia il vento in un viale alberato molto
più stretto di come me lo ricordavo, e il suono delle macchine
arriva attutito. Io al centro della strada, per un attimo mi trovo in
bilico, un piccolo pezzo in un tutto che si plasma fino a contenermi,
e quando finalmente si avvicina qualcuno abbasso gli occhi, provo
vergogna di questo attimo che chissà come riuscirò a descrivere, ma
ecco, a pensarci bene è come se l'aria si facesse solida ma ci fosse
lo spazio giusto per me.
[…]
Se
scrivo troppo mi fa male la mano, le dita si intirizziscono e devo
stenderle, se passo poi al computer dopo due giorni mi viene male al
polso, forse non dovrei appoggiarlo ma allora magari mi farebbe male
il gomito. Al di là dei miei acciacchi il punto è un altro: non
posso separare il pensiero dal mio corpo, di fatto il pensare è una
funzione corporale. Ogni frase che scrivo, ogni oggetto che realizzo
non sono che protuberanze di me, non posso staccarmi da questa massa
seduta davanti a uno schermo.
Essere
una voce che aleggia nell'aria, senza nome, un pettegolezzo che si
espande di bocca in bocca.
[…]
Il
più delle volte, in giorni come questo, è solo questione di saper
selezionare i segnali che ci arrivano, capire se quello sguardo è
davvero per noi, se il fatto che capitiamo seduti vicini significa
fortuna, disastro, o niente.
Questa
lettera che vi spedisco,
evidentemente scritta nel giorno sbagliato e da tanto lontano, è
come se si sviluppasse lungo un sentiero stretto stretto con ai lati
due crinali ripidissimi. Da una parte c'è il rischio di non riuscire
a dire nulla, di cadere in un vortice di immagini che non possano
generare altro che loro stesse; dall'altra la paura di salire fino a
divenire un santone televisivo, cercando di far acquisire un
significato simbolico a tutti questi mostri. In mezzo, se riusciamo a
tenere l'equilibrio, se riusciamo a stare in piedi, il sentiero
giunge alla vostra casa.
(Equilibrium,
with Antonio Guiotto – PR 2012)
Pietro
Rigolo
>>
Language
is not only the representation of the world, or a medium that enables
us to establish a relationship with the outside world. It is the
organ that allows us to blend with the outside, to open a private
flow to the environment.
When
language becomes the driving force of the world, rather than just
mirroring it, traditional contradictions, such as myself/another or
public/private disappear. Therefore new forms of understanding become
possible, forms which redefine global existence in the light of a
continuous shift between identification and distance.
Becoming
part of the world and making it communicate through a specific
practice: the artist, the environment (whether places, unknown
writers, loved ones) and language itself all take part in a
continuous re-reading of oneself and others on different levels, thus
reformulating not only relationships but the concept of identity
itself.
[...]
A
work of art is not so much about a personal interpretation or a
portrait of the subject but rather about suggesting a certain type of
behaviour and in proposing them as the object of a debate. The artist
becomes nominator, through a continuous questioning of the existence,
which is not based on a particular technical knowledge or specific
technique. The world becomes the interlocutor and the artist reads
every stimulus as a possible answer, transforming everything into a
signal, into a metaphor of something else.
[...]
Concentrating
on the translation process and on the inevitable changes of meaning
that this involves, makes the idea of every positive confrontation
harder. True sharing is always sharing, most importantly sharing the
awareness of the impossibility of a relationship that is totally
honest and satisfying. (Datele un amore felice o infelice ma che sia
amore - PR 2006) (Give her a happy love or an unhappy love, as long
as it is love)
J’ai
des mains pour te cueillir, thym minuscule de mes rêves, romarin de
mon extrême pâleur.
(I've
got hands to hold you, minute thyme of my dreams, rosemary of my
extreme paleness.)
André
Breton, Le
revolver aux cheveux blancs, 1932.
[…]
A
certain idea of stability is communicated directly by the sculptural
gesture and in its compulsion (who has never played, without being
aware of it, with a piece of paper?) it is possible to retrace a
sense of belonging and protection, putting ourselves into the minimal
elements of living the space and surrounding objects, that
unconsciously constitute the constellation of our primary
relationships.
The
artist’s hand, that plays and grants titles sometimes consuming,
sometimes comical, manages to make itself so small, so precise as to
build an entire universe, closed and coherent of intimate meanings in
the space of a kitchen.
What
is a souvenir? A memory made into an object and image, a nerve centre
in which the past and what we were are condensed. Just like an anchor
painted on the biceps, the most banal and kitsch tattoo but at the
same time the most ancient, which has in time become a symbol
which sailors utilize to represented their first ocean crossing, or
their salvation from a dangerous storm. Between living the events
personally and recalling them from far away, there’s a gesture –
an object – in which the two aspects blend.
Creating
an object to help us remember is ridiculous and noble, useless and
necessary – banal and poetic, like a little ceramic object with the
phrase My home can be a substitute for the world – the world cannot
be a substitute for my home.
I
live by the ocean / and during the night / I dive into it / down to
the bottom / underneath all currents / and drop my anchor / and this
is where I’m
staying / this is my home.
Björk,
The
anchor song, 1993
[…]
The
possibility of building a place where everything, for a moment, is
part of a precise design: the place where we spent our childhood, all
the arms that have ever held us tightly. (My home can be a substitute
for the world – the world cannot be a substitute for my home - PR
2009)
A
secret has an ambiguous and slippery status; on one hand it is
something hidden, that shall not be disclosed but at the same time,
if it is not revealed in part - but, of course, whispering in the
ear: "it's a secret!" - it would not exist as such. This is
perhaps where its charm lies, together with its stinging power.
[…]
Images
cannot talk. The only thing they can do is to show up, be present,
nearby, be close to us. And they do it in space, rather than in time:
in the space of our memory, in our computers, in our homes. Looking
at a photo we cannot clearly relive the day on which it was taken, or
bring closer the person who seems to be smiling at us.
We
can however create another space in which to stay close to one
another, without speaking. And you know, it is not easy not to feel
compelled to speak, but when you are lucky enough to meet someone
with whom you can share an easy silence, it is a rare opportunity
that should be seized upon. (Dudy Guard - PR 2009)
The
sky here is as diaphanous and thin as paper.
The
first adjective I would use to describe the night is thick. Following
the stream of ideas deriving from this, the sunset would be a
stratifying process, a sculpture made by adding, the dawn a process
of removing, a sculpture made by removing. At the moment in which the
night is at its darkest, life itself is heavier; and it is for this
reason that we choose to sleep.
[...]
A
Japanese journalist happened to be in Paris during one of the first
Lumiere projections, and from that very moment articles describing
this new discovery started to circulate in Japan....but either
because the journalist described it badly, or because he was
misunderstood, the result was that the articles based on his
testimony gave a totally distorted vision of the cinema. According to
these articles, the rows of seats were arranged along the sides of
the room, perpendicularly to the screen instead of parallel, and the
show admired by the public was not the image projected on the fabric,
but the cone of light coming out from the projector. That’s nice,
isn’t it?
Welcome.
(9 hours 54 minutes, with Anna Forlati - PR 2010)
They
moved...holding the position assigned to them, but they were swaying
back and forth, as if breathing, those closest banging against the
walls and columns making a dry sound which with every breath became
increasingly articulate...not quite a voice, but more like a breath,
a faint whisper. Perhaps if those two arrogant souls had stopped
arguing they would have been able to understand!
Gradually
all the statues became silent, the laughing and jokes faded to a
whisper, the baby stopped whimpering and everyone started to look at
those cubes as if at any moment they would reveal a message of life
or death...the aggregation of statues all took that same direction,
all gazing towards that one corner, just one moment more and the
voices would reach a volume and articulation hard to understand...
(Dudy Guard – PR 2012, translated from Italian by Angela Crompton)
The
hand drawing lightly touches and casts even more light on the
previous trace. The search for form is abandoned in favour of a
celebration of what is already there. Thinking with the hand, maybe
not even thinking but simply contemplating the sign of a passing,
becoming a trace between traces, without intention or meaning.
(Argenteo Lumacheo, PR 2012)
And
then there are suspended moments when the wind blows through a
tree-lined avenue, much narrower than in my memories, and in the
background the muted sounds of passing cars. Alone in the middle of
the road, just for a moment I find myself in equilibrium, a tiny part
of a whole that moulds itself to enfold me, and when at last someone
approaches, I lower my eyes and feel shame for this moment that is so
difficult to describe, a moment in which it feels as if the air
itself has solidified leaving just a small space for me.
[…]
If
I write too much, my hand starts to ache, my fingers stiffen and I
must try to move them, if then I pass to the computer, after two days
my wrist aches, maybe I shouldn’t rest it on the desk but then
maybe my elbow would start hurting. But all my aches and pains are
not the point, the point is something else: I can’t separate my
thoughts from my body; the act of thinking is a bodily function.
Every phrase that I write, every object that I create are nothing but
part of me, I cannot separate myself from this mass sitting in front
of a screen.
As
if I were a voice that fluctuates in the air, nameless, a rumour that
passes from mouth to mouth.
[…]
Often,
on days like this, it is just a question of being able to choose the
signals that we perceive, to understand if that glance is really
directed towards us, if the fact that we find ourselves sitting next
to each other signifies good luck, disaster or nothing at all.
This
letter that I am sending you, obviously written on the wrong day and
from far away, is as if it evolved along a narrow path between two
very steep ridges. On one side, the risk of being unable to put down
the words, to fall into a vortex of images that can generate nothing
but other images; on the other side is the fear of rising to become a
bigoted television personality, trying to give a symbolic meaning to
all these monsters. And in the middle, if we succeed in keeping our
balance, if we manage to stay on our feet, the path will lead to your
house. (Equilibrium, with Antonio Guiotto – PR 2012)
Pietro
Rigolo