mercoledì 27 maggio 2015

Guha, testo in italiano

Il lavoro di Francesco Bertelé nasce dalla ricerca di una relazione individuale con i luoghi che l’artista si trova a vivere; luoghi in cui la dimensione naturale è fortemente presente, e sui quali si proietta il suo desiderio di una sintonia profonda, primaria, organica. Nel tentativo di costruire questa relazione, Bertelé attiva connessioni nel tempo e nello spazio, recuperando storie e miti locali, dissotterrando oggetti, innescando forme diverse di condivisione con figure del posto.
Guha, realizzata durante un periodo di residenza trascorso in Islanda, scaturisce da una riflessione in cui si intersecano diversi temi; tra gli altri quello dello studio d’artista, inteso non solo come luogo fisico di produzione, ma come condizione per un viaggio interiore che comprende la meditazione, l’approfondimento e la riscoperta della memoria, individuale e collettiva, che proprio nella solitudine affiora più facilmente dal passato; è, questa, una dimensione consona all’incontro con il nuovo, e con l’“altro”.
Guhascrive Bertelè - è la caverna interiore sul bordo del mondo; è un monumento ambientale nascosto nel ventre della terra. Un rifugio invisibile per la meditazione sulla natura dalla quale noi tutti dipendiamo.”
L’allestimento comprende una serie di disegni, fotografie e manufatti; alcuni oggetti trovati; un video; un dispositivo ottico che, come i disegni, ci porta indietro nella storia delle tecniche della visione, a una sorta di tecnologia antica. Il tutto si compone in una sorta di diario.
[…]
La ricerca di un vuoto per far si che si lasci un varco all'immaginario, per ottenerne una decolonizzazione. Una sintesi concettuale che si è tradotta in un metodo pratico di meditazione quotidiana. L'opera realizzata è invisibile ai più, nascosta al termine di quel percorso che là mi ha portato. Solo chi vorrà intraprendere questo viaggio la potrà trovare, scoprendo la propria caverna del cuore.
Ecco perché questa mostra si compone di vari elementi tutti demarcati da una forte componente diaristica. Ognuno di questi elementi dai contorni instabili è parte di quel processo di iperestensione(1) che nel suo divenire compone l'opera come un non finito, costellazione di elementi personali, legati da un unico tracciato possibile. Il mio vissuto. All'interno di questi elementi, esposti in mostra, è però celato un codice che può portare colui/lei che lo decifrerà al luogo esatto della caverna realizzata in Islanda. Ma solo una persona potrà farlo, perché alcuni elementi in mostra devono essere distrutti per procedere.
Il legame univoco che si instaura tra l'opera e il suo unico vero fruitore, fa sì che egli debba intraprendere un viaggio verso l'opera, un proprio percorso, fatta di esperienze ed incontri che lo porteranno forse verso una privata meditazione e personale 'caverna del cuore'.”


Testo di Gabi Scardi per la mostra “Seminerò perle di principessa in una caverna” presso NCTM.

(1) “Il processo di iperestensione viene mostrato includendo l'artista stesso, come un sempre più integrato agente ecologico.” Julia Martin

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La lettera
Sono partito con un'idea, astratta e lontana, lontana dal luogo in cui sono e lontana dal mio essere in questo luogo.
Sono partito con l'idea di realizzare una 'caverna del cuore'. La mia caverna del cuore.
E' il luogo del vuoto come assenza e abbandono dell'io.

Non aver timore perchè il vuoto non può essere offeso dal vuoto. Tutto è tua immagine illusoria, nulla esiste in realtà, al di fuori, come cosa reale; né gli dei, né i demoni, né il demonio dalla testa di toro.

Il coraggio per abbandonare la caverna e cercare la luce. Una luce fatta di memoria...
Ma io vorace consumatore di luoghi e tempo, dilatato verso lo zero dell'attimo consumato dopo attimo, mi ritrovo in un presente continuo ed inesorabile.
Mi son chiesto come potessi tornare indietro nel tempo e costruirmi un rifugio. Come sopravvivere qui.
Come l'uomo delle buche . Fare buche per essere invisibile al mondo. Un mondo di rumore.
Ho bisogno del silenzio dell'immagine, silenzio del consumo dell'immagine.
Ho bisogno di generare vuoto, di tornare nel vuoto prima della parola. Ho bisogno di imparare a fare buche. Buche per esistere e apparire solo come buca.
Ma per farlo devo allenarmi di incorruttibilità in ogni più banale pensiero. Devo uscire dall'economia dell'immaginario.

Guarda e non distrarti!

Provo allora a trovare alcuni bordi, mi focalizzo su quei tagli.
Sto attaccato alla terra, come la radice di una pianta errante e afferro il quotidiano altrove per ritrovare casa.
Sono contenuto e contenitore di natura.
Cerco di spostare con la mente un masso creduto sacro ma in verità nient'altro che zavorra per antiche barche da mercante.

Ma che diritto hai tu di intrometterti nella mia esistenza?

Il mio viaggio qui è un viaggio dentro me. E' un percorso esoterico di isolamento e perdita di tutte le sicurezze.
Pensare con il corpo, con tutta la sua durezza. pelle carne sangue ossa linfa respiro mente. Non c'è nulla da ottenere, nulla da rendere.
Io esigo il congelamento dell'insetto nell'ambra, la sintesi della perla nelle valve.
Io sono sostenitore dell'essere umano come agente, capace di 'consegnare una goccia di splendore alla morte'.
Un assassino in abiura un giorno scrisse che 'il rimpianto, quasi sempre, è la corsia preferenziale verso l'impostura'.
Oggi ho cancellato quello che ho fatto negli ultimi giorni. Ho seguito il consiglio della neve. Lascio che il tempo mi trasformi e dia le sue perle. Un ruscello di perle.
Osservo il mondo ed ho poche parole inadeguate.
Ho solo nella testa un fischiare ininterrotto di vento che impedisce i pensieri, tempesta che mi tormenta.
Da qui non porterò via nulla e qui lascerò il mondo solidificato in un grumo di vuoto.

Insomma, son dovuto giungere fino a qui, una mattina uscire e andare alla ricerca di un teschio d'anatra visto sulla spiaggia qualche giorno prima, per trovare al suo posto la scultura perfetta, che ha avuto bisogno di due anni di gestazione trentasette dei quali di mera manipolazione e modellazione.
Ovunque ci sia uomo e spiritualità c'è una caverna nel cuore.

Seyðisfjörður, Iceland


2015

sabato 19 aprile 2014

My statement


To observe, act and gather are the three phases of my internalization.

My field of action is a jagged and composed reality of concrete forms, the remains of an everyday activity and the solidified protuberance of gestures. In my work there is never a static prior design. My works are the result of the stratification and organization of forms created in a specific time and space, which automatically become environmental installations and spaces for perception. My research is focused on observation, facilitation and composition of complex and interconnected systems whether they are environmental, social or conceptual.
I consider my art as a temporary result within the process of transformation where nothing is permanent, nothing is lasting, whose cognitive source is, above all, that which I have drawn out from the reality of life.

The core of my practice is the ability to learn from every new place I move to and people that I meet, to implement this knowledge through the making. Like an animal, I try to be resilient, to live in new landscapes and find my own way of being. That's why my projects are always the result of these encounters. What I'm looking for is chance to transform my studio from a site of artistic production into diffused, nomadic sites for encounters, discovery and memory.

I exchange imagination for a free political act.




Essay by FUR



[testo Italiano, vedi sotto]

Maybe thanks to his Lombard roots, maybe thanks to the knowledge he has gained in the fields of acoustics, botany and bioarchitecture, the fact remains that Francesco Bertelé’s approach to art has an almost “Leonardo” expression. The conception of his works vacillates at the intersection between his knowledge of techniques and materials and the ingenuity of his ideas. He sees the centrality of the human body as a rational perceptive organism that is sometimes put to the test – but never deceived – by optical illusions or other stimuli (The Pit and the Pendulum). Or again, still on the same track, the aspiration to humanistic values that often leads the artist to construct true means of reaching social perfectibility: it is not by chance that his works include homes, ovens, gardens and fords.
His is a corpus that seems to evolve through endeavours to reach the solution of contextual problems, both within and outside of the artistic discipline: each work requires the invention of new methods. And it is for this reason that, rather than uniting the style and the themes, he prefers to remain faithful to vital stimuli, rationalised through an analytical process where the result is not necessarily a unified whole. The spectator never finds himself in front of a closed work of art but, as if following a barely visible path, he must find his way through a network of signs and symbols whose hierarchy is only transitional. The movement is always in a lateral direction and the destination is always in the far distance. Like when looking for a monument floating on the waters of the Black Sea, the spectator first comes across a series of publicity placards, then in a photographic diary, a video and finally in a sculpture (L'Ile Flottante). And reality slowly slides away, postponed until the next trace, the next curve in our reasoning.
Is there an end? Is there a centre? Where must we start searching for the object of our desire, ours and the artist’s?
It is not an object that takes shape in front of us, rewarding us in a material way. It is more likely to appear in a vision, an unexpected image. Going down into a cellar we find that which seems to be a small science museum; following a map we wander along a path through the woods and then across a ford leading to a small island where there is a dwarf palm, unbelievably surviving the currents of a tempestuous stream. (The secret garden). The weariness that we are prepared to support is the measure of our ability as spectators and of our relationship with the work of art, which is reached only by passing through manifold stages. Our attention moves from the object of our desire to the mechanism leading ultimately to the moment in which it can be deciphered.
Yes, because there is always something to decipher. Every stage along the way is a single element of a written passage, of a code. It can be said that the works of Francesco Bertelé coincide with the symbols of a code that must be revealed. The aim of the exercise is however greater than the pleasure of inventing a charade and then solving it. Here the aim is to verify the soundness of a virtue which is presumed to be shared by both the artist and the spectator: that which speakers of the Latin language – and still today lawyers- call, with an ambivalent meaning, fides.
Fides or trust. The secrets that are part of the artist’s biography are written on squared paper and are then cut out and reassembled in a different sequence in order to form an irregular geometric design (The Tracce Series). A photograph that is never publicly displayed is broken down into pixels which are then transformed into cubes of coloured wood and arranged in the exhibition area according to their different hues. Anyone who is interested can buy a portion of this work in such a way that the image belongs to everyone even though no-one has ever seen it (Dudy Guard). A cryptic phrase is written by joining together pieces of mirror which reflect each other so that what would otherwise be impossible to read becomes legible (Senza Titolo. Oblio).
Fides or trust. An oval-shaped tree house constructed with clay and straw in the centre of a village and left as a gift to the local community (Tüc as ciamumma dal voti Cosimo). A community of artists and curators has been founded with the aim of rethinking current methods of cultural production giving rise to a collection that experiments the tenability of this new school of thought (Carrozzeria Margot).
Francesco Urbano Ragazzi
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Sarà per i natali lombardi, sarà per la formazione che spazia nei campi dell'acustica, della botanica e della bioarchitettura, sta di fatto che, nell'approccio alla pratica artistica, Francesco Bertelé ha qualcosa di leonardesco. La concezione dell'opera, ad esempio, compresa nell'intersezione tra conoscenza erudita di tecniche e materiali, ingegno e priorità del progetto sull'idea. Oppure la centralità del corpo umano come organismo percettivo razionale, che viene talvolta messo alla prova - mai ingannato - da illusioni ottiche o stimoli di altra natura (The Pit and the Pendulum). Oppure ancora, sempre sulla stessa scia, l'aspirazione a valori umanistici, che spesso porta l'artista a costruire vere e proprie macchine di perfettibilità sociale: non è un caso che nella sua produzione si contino anche unità abitative, forni, giardini, guadi.
E' un corpus, il suo, che sembra evolvere per tentativi di soluzione a problemi contestuali, interni ed esterni alla disciplina artistica: si richiede di volta in volta l'invenzione di metodi nuovi. Proprio per questo, all'unità dello stile e dei temi viene preferita l'adesione a spinte vitali, razionalizzate attraverso un processo di analisi a cui non è detto succeda una sintesi.
Lo spettatore non si trova mai davanti a un'opera chiusa, ma, come seguendo un sentiero appena tracciato, deve orientarsi in una rete di segni e segnali le cui gerarchie sono provvisorie. Il movimento è sempre laterale e la meta lontanissima. Come quando, per cercare un monumento galleggiante nelle acque del mar Nero, il visitatore si imbatte in una serie di affissioni pubbliche, poi in un diario fotografico, in una videoinstallazione, e ancora in una scultura (L'Ile Flottante). E il reale lentamente sfugge di mano, rinviato alla prossima traccia, alla prossima curva del ragionamento.
Esiste una fine? Esiste un centro? Dove bisogna cercare l'oggetto del desiderio, nostro e dell'artista?
Non in un oggetto che appare davanti a noi, premiandoci materialmente. Più probabilmente in una visione, in un'immagine improvvisa. Scendiamo in un seminterrato dove troviamo quello che sembra un piccolo museo della scienza, seguendo una mappa attraversiamo un sentiero nel bosco e poi un guado per approdare su un'isoletta dove una palma nana sopravvive, chissà come, alle correnti di un torrente (The secret garden). La fatica che siamo disposti a fare misura la nostra abilità di spettatori e il rapporto con l'opera, che si apre a gradi diversi di raggiungibilità. L'attenzione si sposta dall'oggetto del desiderio al meccanismo della sua decifrazione.
Già, perché c'è sempre qualcosa da decifrare. Ogni stazione del percorso è l'elemento di una scrittura, di un codice. L'operare stesso di Francesco Bertelé, si può dire, coincide con l'articolazione di un codice che deve essere risolto. Lo scopo dell'esercizio è però maggiore che il piacere di escogitare una sciarada e poi di scioglierla. Si tratta invece di verificare la solidità di una virtù, che artista e spettatore si presume condividano: quella che i latini - e ancora oggi gli avvocati - chiamano, con significato ambivalente, fides.
Fides cioè fiducia. I segreti che segnano la biografia dell'artista sono scritti su fogli a quadretti successivamente ritagliati e poi rimontati in ordine diverso a formare un irregolare motivo geometrico (la serie Tracce). Una foto che non viene mai mostrata pubblicamente è scomposta in pixel, i quali vengono trasformati in cubi di legno colorati, disposti secondo tonalità nello spazio espositivo. Ogni persona interessata può comprare una porzione d'opera, cosicché l'immagine è posseduta da tutti anche se nessuno l'ha mai vista (Dudy Guard). Una criptica frase scritta unendo insieme pezzi di specchio riflette se stessa, permettendo la propria leggibilità altrimenti impossibile (Senza Titolo. Oblio).
Fides cioè fedeltà. Una casa sull'albero a forma ovoidale è costruita con argilla e paglia al centro di un paese e lasciata in dono alla comunità locale (Tüc as ciamumma dal voti Cosimo). Un consorzio di artisti e curatori viene fondato con lo scopo di ripensare i metodi di produzione culturale attuali. Ne nasce una collezione che sperimenta la sostenibilità di queste relazioni nuove (Carrozzeria Margot).

Francesco Urbano Ragazzi

Troppi titoli, 2006 – 2012 | Far too many titles, 2006 – 2012


[scroll down for eng v.]

Il linguaggio non è solo rappresentazione del mondo, o un mezzo che consente al soggetto di entrare in rapporto con un'esteriorità. Esso è l'organo che ci permette di fonderci con il fuori, di aprire un flusso privato, asfittico e circolare all'ambiente.
Nel momento in cui il linguaggio si fa motore del mondo, piuttosto che limitarsi a fornirgli uno specchio, cadono contrapposizioni tradizionali quali io/altro, pubblico/privato: ecco quindi che risultano possibili nuove forme di conoscenza, che ripensano alla globalità dell'esistente alla luce di un continuo salto di registro tra immedesimazione e distanza.
Calarsi nel mondo, e farlo parlare attraverso la propria pratica: l'artista, l'ambiente (che siano luoghi, writers sconosciuti, persone amate) ed il linguaggio stesso concorrono ad una continua rilettura su più piani di sé e degli altri, che giunge a riformulare non solo un rapporto, ma il concetto stesso di identità.
[...]
L'opera consiste non tanto in una determinata lettura dei soggetti, in un loro ritratto, quanto nel suggerire un atteggiamento, e nel proporlo quale oggetto di un dibattito. L'artista si fa nominatore, attraverso una continua interrogazione dell'esistente, che non fa appello ad una conoscenza o ad una tecnica specifica. Il mondo diviene un interlocutore, e l’artista legge ogni stimolo come una possibile risposta, trasformando tutto in segnale, in metafora di un qualcos'altro.
[...]
Il concentrarsi sul processo di traduzione, sugli inevitabili slittamenti di significato che esso comporta, problematizza l’idea di ogni confronto positivo. Una vera condivisione, è sempre condivisione prima di tutto della consapevolezza dell’impossibilità di un rapporto totalmente trasparente ed appagante. (Datele unamore felice o infelice ma che sia amore - PR 2006)

J’ai des mains pour te cueillir, thym minuscule de mes rêves, romarin de mon extrême pâleur.
(Ho mani per coglierti, timo minuscolo dei miei sogni, rosmarino del mio estremo pallore.)
André Breton, Le revolver aux cheveux blancs, 1932.

[...]
Una certa idea di stabilità viene comunicata direttamente dal gesto scultoreo, nella cui compulsione (chi non ha mai giocato, senza accorgersene, con un pezzetto di carta?) è possibile rintracciare un senso di appartenenza e di protezione, un calarsi negli elementi minimi del vivere lo spazio e gli oggetti vicini, che inconsapevolmente costituiscono la costellazione delle nostre relazioni primarie.
La mano dell’artista, che gioca e assegna titoli a volte struggenti, a volte comici, riesce a farsi così piccola, così precisa da costruire un intero universo conchiuso e coerente di significati intimi nello spazio di una cucina.
Cos’è un souvenir? Un ricordo fatto oggetto e immagine, un centro nevralgico in cui si condensa il passato e ciò che eravamo. Come l’ancora posata su un bicipite, il tatuaggio più banale e kitsch, e allo stesso tempo il più antico, che con il tempo viene usata per rappresentare da parte dei marinai la prima traversata oceanica, o l’essere scampati ad una pericoloso tempesta. Tra il vivere sulla nostra pelle gli avvenimenti e il ricordarli da lontano, si pone un atto – un oggetto – in cui i due aspetti si fondono. Il fare per ricordare è al tempo stesso ridicolo e nobile, inutile e necessario – banale e poetico, come un oggettino di ceramica con la scritta Casa mia può sostituire il mondo – il mondo non può sostituire casa mia.

I live by the ocean / and during the night / I dive into it / down to the bottom / underneath all currents / and drop my anchor / and this is where I’m staying / this is my home.
Björk, The anchor song, 1993

[…]
La possibilità di costruzione di un luogo dove tutto, per un attimo, sia parte di un disegno preciso: il luogo dove siamo cresciuti, tutte le braccia che fino ad oggi ci hanno stretto. (Casa mia puòsostituire il mondo – il mondo non può sostituire casa mia - PR 2009)
Il segreto ha uno statuto ambiguo e scivoloso: da una parte è una cosa nascosta, che non va divulgata, dall’altra se non lo si rivela in parte - ma, beninteso, sussurrando all’orecchio: “è un segreto!” - non esisterebbe in quanto tale. In questo risiede forse il suo fascino, ed il suo potere urticante.
[…]
Le immagini non possono parlare. L’unica cosa che possono fare è presentarsi, essere presenti, vicine; starci vicino. E lo fanno nello spazio, prima che nel tempo: nello spazio della memoria, del nostro computer, delle nostre case. Attraverso una foto non possiamo evidentemente rivivere la giornata in cui è stata scattata, o riportare qui la persona che lì sembra sorriderci. Possiamo però creare un altro spazio in cui stare vicini, senza parlare. E si sa, non è facile non sentirsi in dovere di parlare; ma quando si ha la fortuna di incontrare qualcuno con cui ce lo si può permettere, è un’occasione rara che va colta al volo. (Dudy Guard - PR 2009)
Il cielo qui è sottile come carta.
Il primo aggettivo che userei per descrivere la notte è spessa. Seguendo il flusso di idee che ne deriva, il tramonto sarebbe uno stratificarsi, una scultura a mettere, l’alba uno sfogliarsi, una scultura a levare. Nel momento in cui la notte è più fitta, la vita stessa pesa di più; è per questo che di solito scegliamo di dormire.
[...]
Un giornalista giapponese si ritrovò a Parigi ad una delle prime proiezioni dei fratelli Lumière, e fin da subito in Giappone iniziarono a circolare degli articoli su questa nuova scoperta..ma il giornalista si spiegò male, o venne capito male, fatto sta che gli articoli ripresi dalla sua testimonianza davano del cinema una visione totalmente distorta, secondo cui le file di sedie erano poste lateralmente, perpendicolari allo schermo invece che parallele, e lo spettacolo ammirato dal pubblico era costituito non dall'immagine proiettata sulla tela, bensì dal cono di luce che usciva dal proiettore. Bello, no? Benvenuti. (9 ore 54 minuti, con Anna Forlati - PR 2010)
Si muovevano...tenevano la posizione assegnata loro, ma stavano compiendo dei piccoli movimenti regolari, avanti e indietro, come se stessero respirando, e quelli vicino alle pareti e alle colonne sbattevano producendo un suono secco, che di respiro in respiro diveniva sempre più articolato...non proprio una voce, questo no, ma come un alito, un sussurro lieve. Forse se quei due arroganti avessero smesso di litigare si sarebbe potuto capire qualcosa! Poco a poco tutte le statue si fecero zitte, le risatine e le battute di stupore si sopirono, il pupo smise di piagnucolare e tutti iniziarono a fissare quei cubetti come se da un momento all'altro avessero dovuto rivelar loro un messaggio di vita o di morte...l'ammasso di statue prese una direzione come stabilita, tutti divennero un unico sguardo puntato verso quell'angolo, ancora un momento e la voce avrebbe raggiunto un volume e un'articolazione appena comprensibile...(Dudy Guard – PR 2012)
La mano successivamente percorre un sentiero che lambisce e illumina la traccia precedente. La ricerca della forma viene abbandonata a favore di una celebrazione di quello che già c'è. Cercare di pensare con la mano, anzi neppure pensare ma contemplare il segno di un passaggio, divenire traccia tra altre traccie, senza intenzioni né significati.(ArgenteoLumacheo, PR 2012)

Eppoi momenti sospesi, quando soffia il vento in un viale alberato molto più stretto di come me lo ricordavo, e il suono delle macchine arriva attutito. Io al centro della strada, per un attimo mi trovo in bilico, un piccolo pezzo in un tutto che si plasma fino a contenermi, e quando finalmente si avvicina qualcuno abbasso gli occhi, provo vergogna di questo attimo che chissà come riuscirò a descrivere, ma ecco, a pensarci bene è come se l'aria si facesse solida ma ci fosse lo spazio giusto per me.
[…]
Se scrivo troppo mi fa male la mano, le dita si intirizziscono e devo stenderle, se passo poi al computer dopo due giorni mi viene male al polso, forse non dovrei appoggiarlo ma allora magari mi farebbe male il gomito. Al di là dei miei acciacchi il punto è un altro: non posso separare il pensiero dal mio corpo, di fatto il pensare è una funzione corporale. Ogni frase che scrivo, ogni oggetto che realizzo non sono che protuberanze di me, non posso staccarmi da questa massa seduta davanti a uno schermo.
Essere una voce che aleggia nell'aria, senza nome, un pettegolezzo che si espande di bocca in bocca.
[…]
Il più delle volte, in giorni come questo, è solo questione di saper selezionare i segnali che ci arrivano, capire se quello sguardo è davvero per noi, se il fatto che capitiamo seduti vicini significa fortuna, disastro, o niente.
Questa lettera che vi spedisco, evidentemente scritta nel giorno sbagliato e da tanto lontano, è come se si sviluppasse lungo un sentiero stretto stretto con ai lati due crinali ripidissimi. Da una parte c'è il rischio di non riuscire a dire nulla, di cadere in un vortice di immagini che non possano generare altro che loro stesse; dall'altra la paura di salire fino a divenire un santone televisivo, cercando di far acquisire un significato simbolico a tutti questi mostri. In mezzo, se riusciamo a tenere l'equilibrio, se riusciamo a stare in piedi, il sentiero giunge alla vostra casa. (Equilibrium, with Antonio Guiotto – PR 2012)

Pietro Rigolo

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Language is not only the representation of the world, or a medium that enables us to establish a relationship with the outside world. It is the organ that allows us to blend with the outside, to open a private flow to the environment.
When language becomes the driving force of the world, rather than just mirroring it, traditional contradictions, such as myself/another or public/private disappear. Therefore new forms of understanding become possible, forms which redefine global existence in the light of a continuous shift between identification and distance.
Becoming part of the world and making it communicate through a specific practice: the artist, the environment (whether places, unknown writers, loved ones) and language itself all take part in a continuous re-reading of oneself and others on different levels, thus reformulating not only relationships but the concept of identity itself.
[...]
A work of art is not so much about a personal interpretation or a portrait of the subject but rather about suggesting a certain type of behaviour and in proposing them as the object of a debate. The artist becomes nominator, through a continuous questioning of the existence, which is not based on a particular technical knowledge or specific technique. The world becomes the interlocutor and the artist reads every stimulus as a possible answer, transforming everything into a signal, into a metaphor of something else.
[...]
Concentrating on the translation process and on the inevitable changes of meaning that this involves, makes the idea of every positive confrontation harder. True sharing is always sharing, most importantly sharing the awareness of the impossibility of a relationship that is totally honest and satisfying. (Datele un amore felice o infelice ma che sia amore - PR 2006) (Give her a happy love or an unhappy love, as long as it is love)

Jai des mains pour te cueillir, thym minuscule de mes rêves, romarin de mon extrême pâleur.
(I've got hands to hold you, minute thyme of my dreams, rosemary of my extreme paleness.)
André Breton, Le revolver aux cheveux blancs, 1932.
[…]
A certain idea of stability is communicated directly by the sculptural gesture and in its compulsion (who has never played, without being aware of it, with a piece of paper?) it is possible to retrace a sense of belonging and protection, putting ourselves into the minimal elements of living the space and surrounding objects, that unconsciously constitute the constellation of our primary relationships.
The artist’s hand, that plays and grants titles sometimes consuming, sometimes comical, manages to make itself so small, so precise as to build an entire universe, closed and coherent of intimate meanings in the space of a kitchen.
What is a souvenir? A memory made into an object and image, a nerve centre in which the past and what we were are condensed. Just like an anchor painted on the biceps, the most banal and kitsch tattoo but at the same time the most ancient, which has in time become a symbol  which sailors utilize to represented their first ocean crossing, or their salvation from a dangerous storm. Between living the events personally and recalling them from far away, there’s a gesture – an object – in which the two aspects blend.
Creating an object to help us remember is ridiculous and noble, useless and necessary – banal and poetic, like a little ceramic object with the phrase My home can be a substitute for the world – the world cannot be a substitute for my home.

I live by the ocean / and during the night / I dive into it / down to the bottom / underneath all currents / and drop my anchor / and this is where Im staying / this is my home.
Björk, The anchor song, 1993
[…]
The possibility of building a place where everything, for a moment, is part of a precise design: the place where we spent our childhood, all the arms that have ever held us tightly. (My home can be a substitute for the world – the world cannot be a substitute for my home - PR 2009)
A secret has an ambiguous and slippery status; on one hand it is something hidden, that shall not be disclosed but at the same time, if it is not revealed in part - but, of course, whispering in the ear: "it's a secret!" - it would not exist as such. This is perhaps where its charm lies, together with its stinging power.
[…]
Images cannot talk. The only thing they can do is to show up, be present, nearby, be close to us. And they do it in space, rather than in time: in the space of our memory, in our computers, in our homes. Looking at a photo we cannot clearly relive the day on which it was taken, or bring closer the person who seems to be smiling at us.
We can however create another space in which to stay close to one another, without speaking. And you know, it is not easy not to feel compelled to speak, but when you are lucky enough to meet someone with whom you can share an easy silence, it is a rare opportunity that should be seized upon. (Dudy Guard - PR 2009)
The sky here is as diaphanous and thin as paper.
The first adjective I would use to describe the night is thick. Following the stream of ideas deriving from this, the sunset would be a stratifying process, a sculpture made by adding, the dawn a process of removing, a sculpture made by removing. At the moment in which the night is at its darkest, life itself is heavier; and it is for this reason that we choose to sleep.
[...]
A Japanese journalist happened to be in Paris during one of the first Lumiere projections, and from that very moment articles describing this new discovery started to circulate in Japan....but either because the journalist described it badly, or because he was misunderstood, the result was that the articles based on his testimony gave a totally distorted vision of the cinema. According to these articles, the rows of seats were arranged along the sides of the room, perpendicularly to the screen instead of parallel, and the show admired by the public was not the image projected on the fabric, but the cone of light coming out from the projector. That’s nice, isn’t it?
Welcome. (9 hours 54 minutes, with Anna Forlati - PR 2010)
They moved...holding the position assigned to them, but they were swaying back and forth, as if breathing, those closest banging against the walls and columns making a dry sound which with every breath became increasingly articulate...not quite a voice, but more like a breath, a faint whisper. Perhaps if those two arrogant souls had stopped arguing they would have been able to understand!
Gradually all the statues became silent, the laughing and jokes faded to a whisper, the baby stopped whimpering and everyone started to look at those cubes as if at any moment they would reveal a message of life or death...the aggregation of statues all took that same direction, all gazing towards that one corner, just one moment more and the voices would reach a volume and articulation hard to understand... (Dudy Guard – PR 2012, translated from Italian by Angela Crompton)
The hand drawing lightly touches and casts even more light on the previous trace. The search for form is abandoned in favour of a celebration of what is already there. Thinking with the hand, maybe not even thinking but simply contemplating the sign of a passing, becoming a trace between traces, without intention or meaning. (Argenteo Lumacheo, PR 2012)
And then there are suspended moments when the wind blows through a tree-lined avenue, much narrower than in my memories, and in the background the muted sounds of passing cars. Alone in the middle of the road, just for a moment I find myself in equilibrium, a tiny part of a whole that moulds itself to enfold me, and when at last someone approaches, I lower my eyes and feel shame for this moment that is so difficult to describe, a moment in which it feels as if the air itself has solidified leaving just a small space for me.
[…]
If I write too much, my hand starts to ache, my fingers stiffen and I must try to move them, if then I pass to the computer, after two days my wrist aches, maybe I shouldn’t rest it on the desk but then maybe my elbow would start hurting. But all my aches and pains are not the point, the point is something else: I can’t separate my thoughts from my body; the act of thinking is a bodily function. Every phrase that I write, every object that I create are nothing but part of me, I cannot separate myself from this mass sitting in front of a screen.
As if I were a voice that fluctuates in the air, nameless, a rumour that passes from mouth to mouth.
[…]
Often, on days like this, it is just a question of being able to choose the signals that we perceive, to understand if that glance is really directed towards us, if the fact that we find ourselves sitting next to each other signifies good luck, disaster or nothing at all.
This letter that I am sending you, obviously written on the wrong day and from far away, is as if it evolved along a narrow path between two very steep ridges. On one side, the risk of being unable to put down the words, to fall into a vortex of images that can generate nothing but other images; on the other side is the fear of rising to become a bigoted television personality, trying to give a symbolic meaning to all these monsters. And in the middle, if we succeed in keeping our balance, if we manage to stay on our feet, the path will lead to your house. (Equilibrium, with Antonio Guiotto – PR 2012)

Pietro Rigolo